Azzimi di misericordia e di bontà
L’esortazione paolina, a celebrare la pasqua facendo memoria di Cristo, agnello immolato (cf. 1Cor 5,7-8), costituisce una forte spinta alla conversione nell’ottica della misericordia divina. L’apostolo raccomanda che la festa sia vissuta, tenendo conto della nuova condizione di testimoni del Signore risorto: una condizione che rimarca il senso del discepolato cristiano. Essere azzimi di sincerità e verità significa accogliere la sfida che l’opera della misericordia, rivelatasi compiutamente nell’amore di Cristo (cf. 2Cor 5,14), propone al nostro modo di vivere. Il richiamo festoso è anzitutto memoriale di quello che è accaduto a Gesù. La sua immolazione, alla maniera dell’agnello che simboleggia la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto (cf. Es 12,15-28), sta a significare lo sradicamento di quella malvagità che è turgidezza di atteggiamenti alteri, distaccati, narcisisti. Quanti confessano la fede in Gesù, come Signore della propria vita, non possono più vivere nella condizione di chi vede lievitare dentro se stessi giudizio, maldicenza, mormorazione. Dal momento in cui Cristo è stato immolato, consapevoli che tale accadimento ci coinvolge inesorabilmente, la condizione è quella della nuova creatura in Lui (cf. 2Cor 5,17), ovvero del fatto di essere stati riscattati per il suo sangue (cf. 1Pt 1,19) dall’azione perniciosa dell’egoismo.
Con Gesù non siamo diventati solo più buoni: siamo misericordia di Dio e presenza della sua bontà. Questa dimensione, che permea la nostra identità, è espressamente pasquale. È chiaro che non è la festa odierna a realizzare tale svelamento, bensì la consapevolezza che nel momento in cui scegliamo di seguire il Signore, continuiamo ad esercitare l’opera della pasqua, cioè il dono alla storia dell’immolazione di Cristo. Si tratta di una scelta connaturale: intimamente connessa alla persona di Gesù, al punto da cogliere in noi le operazioni della sua vita divina (cf. Fil 2,5). La pasqua è pertanto memoriale non soltanto del ricordo grato di quello che il Signore ha fatto per noi, ma anche della constatazione di quello che è accaduto a ciascuno, osservando l’inabitazione della sua vita divina nella caducità della nostra esistenza. Questa vita di Gesù è la nostra pasqua; la sua azione espiativa genera in noi relazioni nuove, costituite dall’essenzialità dell’azzimo: apertura sincera, accoglienza generosa, rispetto della verità altrui, gioiosa disponibilità ad essere noi immolati per gli altri.
La partecipazione alla pasqua di Gesù è memoriale di quanto egli ha operato in noi, avendo trasformato le nostre esistenze in solidali dimore della misericordia di Dio. Questa è la nostra pasqua: riscoprire in noi l’azzimo di verità che è svelamento dell’identità discepolare, per essere misericordiosi come Dio in Cristo Gesù. Ciò comporta un cambiamento radicale, una ricomprensione seria della propria adesione al vangelo, un atto audace di vivere rendendo felice l’altro (cf. Fil 2,4). È pasqua nel momento in cui impariamo a constatare l’azione immolativa di Cristo in noi, la quale si attua quando «non cadiamo nell’indifferenza che umilia – raccomanda Papa Francesco in Misericordiae vultus al n. 15 – nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge». Al contrario, consapevoli di questo dono che ci rende “pasquali”, cioè capaci di agire ad extra nell’imitazione di Cristo immolato per noi, è pasqua quando «apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità».
Ma la pasqua non è soltanto festa degli azzimi. Ignazio di Antiochia, rileggendo 1Cor 5,7-8, esorta a gettare via «il cattivo fermento, vecchio ed acido» per essere trasformati «in un lievito nuovo che è Gesù Cristo» (Ad Magnesios X,2). Tale fermentazione accade perché – riferisce Origene nel Contra Celsum – ci nutriamo della «carne del Logos», cioè alla persona di Gesù presente nei poveri. L’attenzione ai piccoli, nella variegata condizione di marginalità, è il modo concreto per alimentare la nostra solidarietà che non può che essere pasquale. Essa infatti attua un passaggio che interessa soprattutto colui che compie il gesto di carità: egli partecipa dell’immolazione di Cristo, rendendosi lui stesso agnello immolato per gli altri. La condizione di essere creatura nuova non è soltanto imitativa, ma, nella conformazione a Cristo, si partecipa del suo atto immolativo fino alla piena somiglianza anche nelle operazioni redentive. È chiaro che queste ultime sono finalizzate a prolungare la pasqua di Gesù, con una gestualità che compromette esistenzialmente. Fare del bene agli altri è lo scopo della celebrazione della pasqua, secondo però un bene che accetta la radicalità del passaggio. Occorre che i nostri gesti di carità siano accompagnati da un amore rispettoso, attento, solidale: gesti di autentico coinvolgimento che lascino fermentare la misericordia di Dio. A questo dobbiamo tendere: l’amore di Cristo fermenti abbondantemente in noi, testimoni del Risorto, affinché si scopri ovunque la forza persuasoria del perdono, la gioiosa concordia della pace, la bellezza della fraternità tra i popoli, la veemenza del bene sulle malvagità, la gagliardia della misericordia che converte le menti. Lo rammenta nel Sermone 54,1 Massimo di Torino: «Questo è infatti il mistero del passaggio dal peggio al meglio. Buon transito è dunque il passare dal vizio alla virtù, dalla vecchiezza all’infanzia».
+ Rosario Gisana