Discorso di apertura dell’Anno Giubilare per il Bicentenario

Cattedrale, 3 luglio 2017

L’indizione di quest’anno giubilare, che ricorda la fondazione della nostra Diocesi con la bolla pontificia Romanus Pontifex del 3 luglio 1817 da parte di Pio VII, costituisce un’occasione propizia per rivisitare il nostro cammino di conversione. Il giubileo, stando a quello che suggerisce Lv 25,9-11, è considerato un tempo di speciale riflessione, dalla quale scaturisce un duplice desiderio: migliorare quel processo di santificazione che è conoscenza dell’agire di Dio nella nostra vita ed accogliere, in maniera solidale, chi vive una condizione di marginalità. Non possiamo dimenticare che è stato appena concluso l’anno straordinario, dedicato da Papa Francesco alla misericordia del Padre, durante il quale abbiamo compreso che le opere di misericordia debbano diventare stile di vita credente. La misericordia del Padre, la cui conoscenza passa attraverso le misure traboccanti dell’amore di Cristo, ci ha indotto a mutare radicalmente il modo di relazionarci con gli altri, mirando soprattutto a quella pratica di misericordia che è il perdono senza condizioni.

Quest’atteggiamento, costitutivo di un’autentica scelta discepolare, può essere considerato un felice preludio a vivere il nostro Bicentenario, con una disposizione adeguata ad assimilare quanto lo Spirito dice alla nostra comunità ecclesiale. Quello che conta infatti è saper ascoltare, con semplicità di cuore, i suggerimenti che il Signore ci ispirerà lungo quest’anno, lasciando che neppure un apice sia trascurato per nostra inettitudine (cfr. Mt 5,18). Essi riguarderanno certamente la crescita di fede nelle nostre comunità, prendendo le mosse anzitutto da una maggiore attenzione verso coloro che soffrono la povertà a diversi livelli. Il cammino di conversione richiede tale impegno: una verifica importante che esplicita e sviluppa la nostra relazione con Dio (cfr. 1Gv 4,20).

L’anno giubilare è un richiamo energico ad ascoltare il proprio Signore, una sorta di ripercussione che è eseguita, in maniera altisonante, sulle nostre orecchie, stando ovviamente al senso del termine ebraico lbeîAy (corno di ariete), da cui prende l’accezione «giubileo». Si tratta di parole che esortano, consolano, ammoniscono, insegnano (cfr. 2Tm 4,2-5). Ascoltare la risonanza della parola che Dio vorrà rivolgerci, già a partire da oggi, significa disporci concretamente ad accogliere un’istruzione sapienziale che intende non soltanto sollecitare un cambiamento, che è sempre necessario nell’avanzamento spirituale e morale del discepolato, ma assicurare altresì di essere accompagnati dal Signore, il quale – ci ricorda l’orante del Sal 35,1 – combatte le nostre battaglie e difende le nostre cause.

L’esperienza giubilare riguarderà, prima di ogni cosa, la prossimità del Signore nella nostra vita di fede. Pur avendo conoscenza più o meno confacente al suo mistero di rivelazione, torneremo ad incontrarlo in modo nuovo. Egli rivelerà quello di cui la nostra comunità ecclesiale ha particolarmente bisogno, a partire dalla persuasione che il suo amore fonda e qualifica le nostre testimonianze, che non sempre sono state secondo le esigenze del vangelo. Sentiamo ponderosa l’ammonizione che lo Spirito di Gesù rivolge all’angelo della chiesa di Efeso: «Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima» (Ap 2,4), ove chiaramente l’attributo prw/toj (primo) in relazione al termine avga,ph (amore) sta ad indicare la condizione primigenia della nostra chiamata (cfr. 1Cor 7,24), personale e comunitaria. La comunione ecclesiale scaturisce dai nostri quotidiani assensi all’amore di Dio, quell’adesione che non sempre, purtroppo, è stata corrispondente alla sollecitudine misericordiosa di Cristo. L’anno giubilare consentirà un serio ravvedimento, e sarà proprio la parola che Dio ci farà ascoltare a ridestare la nostalgia del primo incontro. Tornare ad innamorarsi del vangelo, lasciando che esso conformi la nostra vita a quella di Gesù, costituisce un forte nodo di conversione, ma anche la giusta modalità per ripristinare una relazione forse logora, stanca e priva di mordente: un anno dunque che permetta a ciascuno di scorgere le meraviglie che il Signore sta compiendo per questa sua sposa, che è la nostra Chiesa particolare. È necessario pertanto imparare ad ascoltare lo Spirito Santo, dal quale coglieremo la giusta disposizione a stare davanti a Dio, prendendoci cura dei nostri fratelli più poveri.

Non è possibile confessare la fede in Cristo, senza renderci conto dei tanti bisogni che le persone vivono, sovente le persone vicine con le quali condividiamo gli aneliti più intimi. Quanta povertà esiste attorno a noi e non soltanto quella materiale. La mancanza di amorevolezza, dalla quale nascerebbero amicizie fraterne, è forse l’indigenza più comune che si intravede nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità e nel nostro presbiterio. Lo Spirito Santo invita la sposa di Cristo ad assumere un atteggiamento di attesa, come riferisce Ap 22,17, il cui sentimento esplicita un preciso desiderio: la venuta di Cristo. Quest’attesa reclama il compimento del piano d’amore per l’umanità, alludendo certo alla seconda venuta di Cristo, ma non escludendo quell’apertura d’animo che è tipica di chi sperimenta un sentimento di tristezza per l’assenza di colui che si ama al di sopra di tutto (cfr. Mt 9,15; Gv 16,20-24). È opportuno, probabilmente, non dare per scontato questo desiderio di vedere Gesù, come se fosse un sentimento estremo per gli ultimi istanti della vita. Sarebbe pregevole se, al contrario, esso caratterizzasse il nostro modo di testimoniare il vangelo: la nostra credibilità di discepoli di Cristo.

Quest’anno giubilare può aiutarci, dietro sollecitazione dello Spirito Santo, ad avvertire quest’assenza che, nella provvisorietà del tempo, si tramuta in ansia spettante che è ricerca premurosa del proprio Signore. Conosciamo molto bene i luoghi sacramentali della sua presenza, sempre attiva ed efficace, in mezzo a noi. A partire anzitutto dall’ascolto orante della parola di Dio. È la ragione perché vogliamo avviare la pratica della lectio divina in tutte le comunità della nostra diocesi: un modo di pregare che è retaggio spirituale della Chiesa, mediante il quale, lasciandoci istruire dalle parole del Maestro proprio come discepoli in attesa di parole benefiche, vediamo mutare la nostra mentalità che talvolta condiziona e altera l’accoglienza degli altri. La parola di Dio, pregata e meditata, aiuta a strutturare il nostro pensiero, a renderlo certamente più puro e docile nel constatare la bellezza di verità che si cela negli altri. È dall’ascolto orante della parola di Dio che la nostra sensibilità si assimila a quella di Gesù, fino al punto da pensare ed agire come pensa e agisce lui (cfr. Fil 2,5). Reputiamo che, in questa fase di attesa, l’aspirazione più grande sia quella di somigliare più che è possibile alla sua persona.

Rientra in questo proposito di conversione anche la missione popolare. È chiaro che non si tratta di un’iniziativa che dovrà, in qualche modo, riempire lo svolgimento dell’anno giubilare, ma un preciso impegno che connoterà il nostro cammino discepolare in attesa del Signore: un compito che assumiamo per accompagnare la venuta di Cristo. Questo zelo di apostolato non è legato soltanto alla situazione precaria che vive la maggior parte della gente, inconsapevole o distratta della presenza del Regno di Dio in mezzo a noi, bensì all’impulso veemente che ha provocato il vangelo nel momento in cui abbiamo incontrato Gesù. È infatti l’effetto di quest’incontro a generare tale priorità.

Certo, le persone che non conoscono il Signore ci stanno a cuore, ma ciò che sollecita primariamente il desiderio di parlare di lui, che costituisce spesso un primo annuncio, è la gioia di aver scoperto la perla più preziosa (cfr. Mt 13,44-46) che ha qualificato, arricchito, elevato il senso della nostra vita. Come si fa a restare inoperosi di fronte a questo bisogno di conoscenza, tenendo conto di due aspetti essenziali: il primo riguarda proprio la scoperta di questo tesoro che, pur custodendolo come in vasi di creta nella nostra umanità (cfr. 2Cor 4,7-15), esige di essere diffuso sino ai confini della terra (cfr. Mt 28,19; At 1,8); e, in secondo luogo, quello che raccomanda Papa Francesco in Evangelii Gaudium al n. 97 sull’identità della Chiesa, sposa di Cristo: « [Bisogna mettere] la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri. Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali! Questa mondanità asfissiante si sana assaporando l’aria pura dello Spirito Santo, che ci libera dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un’apparenza religiosa vuota di Dio».

Questi impegni, che dovranno plasmare uno stile di testimonianza, si raccordano a due segni permanenti, che reputiamo espressivi di una Chiesa in attesa del Signore. L’ascolto della parola di Dio, accompagnato dalla necessità di far conoscere la bellezza del vangelo, porta ad una constatazione che è anche un bisogno: la formazione spirituale e teologica dei credenti. Oltre alla scuola di Teologia, oggi polo FAD, cioè formazione sincrona a distanza, collegata con l’Istituto Superiore di Scienze Religiose S. Metodio di Siracusa, abbiamo ritenuto opportuno che si riprenda la scuola di Teologia di base itinerante. L’aspetto diffusivo è lo scopo principale di questa proposta-segno. Tale formazione infatti è offerta a tutti, senza alcuna distinzione e al di là dei titoli di studio. Essa intenderà promuovere una conoscenza articolata della dottrina cristiana, altamente qualificata e al contempo accessibile pure a coloro che mancano di nozioni basilari. L’idea è di raggiungere quante più persone possibili, desiderose di essere introdotte all’essenza del cristianesimo.

Questo segno si congiunge ad un altro più concreto: l’attenzione ai poveri. Il nostro territorio è particolarmente colpito da situazioni di grande miseria, al punto che ogni anno lasciano le nostre città decine di famiglie in cerca di lavoro. Ma la contraddizione sta proprio nel paradosso delle risorse che ci appartengono: da quelle turistico-ambientali all’ubertosità delle nostre terre, il cui capitale sarebbe risolutivo per la nostra economia. Ci chiediamo cosa manca per ripartire con entusiasmo ed efficienza? Ci si rende conto, anche qui, che abbiamo bisogno di maggiore amorevolezza nei rapporti. Finché non ci si accoglie a vicenda, nel rispetto della creatività altrui, e soprattutto finché non spegniamo una mentalità diffidente e invidiosa, che imita, purtroppo, un atteggiamento mafioso che si addice a coloro che pensano di governare con il potere della forza e del male, non potremo mai vivificare un ambiente che sarebbe in sé stesso copiosamente prosperoso. La povertà riguarda infatti un modo di relazione, che soffoca alcuni principi fondamentali della ripresa economica, come la sussidiarietà che è rispetto delle capacità e attitudini

l’uno dell’altro, a conseguenza della quale si desterebbe in ciascuno l’istinto benefico della cooperatività. A questo dobbiamo tendere, come espressione di una conversione permanente: i discepoli del Signore sono chiamati a mostrare con segni concreti tale apertura. È in gioco la nostra testimonianza di fronte al mondo e la nostra coerenza di uditori della parola di Dio (cfr. Gc 1,19-25).

L’attenzione sollecita al territorio non ci esime dal sostenere i tanti poveri che bussano alle nostre comunità. L’ordinamento della Caritas, con la presenza dei diaconi, è un richiamo ad un servizio permanente in favore di coloro che hanno bisogno. Se prendersi cura dell’altro è costitutivo di una testimonianza, impregnata del vangelo del Regno (cfr. Mt 9,35), la solidarietà verso i poveri dovrà sempre più connotare il nostro modo di fare pastorale. Si tratta, in altri termini, di collocare il bisogno dell’altro al centro del nostro interesse, facendolo diventare cardine dal quale si dipartono le molteplici attività di animazione. È chiaro che tutto questo non è una novità. Basta osservare il comportamento di Gesù, per capire che i piccoli del Regno non possono essere soltanto motivo di diligente attenzione, ma, nell’accoglierli prediletti del Signore, divengano quello che essi effettivamente sono: luogo sacramentale dove incontrare e far incontrare Dio. Ciò mette in discussione anche il nostro modo di essere Chiesa. Se non imbocchiamo la strada della povertà, rischiamo di evidenziare quella distanza che non consentirà di trovare il Signore; rischiamo cioè di restare ancorati alle belle ma impersonali azioni filantropiche, compiute con ingegno e prodigalità. La povertà della Chiesa, delle nostre comunità capaci di scegliere l’essenziale come stile di interazione sociale, rappresenta la grande questione che questo Giubileo potrebbe, per lo meno, affrontare con coraggio. Anche qui dovrà essere lo Spirito ad indicarci il cammino da percorrere, consapevoli che la povertà rimane la meta più significativa di un processo di conversione che si avvia, se in noi si ridesta quell’amore che è amicizia con Gesù (cfr. Gv 21,15-19).

La sposa, sollecitata dallo Spirito, fa memoria della salvezza operata dallo Sposo, della sua autodonazione che, mediante la morte in croce, l’ha resa «tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,27). Guardando così ai nostri testimoni che ci hanno preceduto, laici, diaconi e presbiteri, constatiamo come Dio non abbia smesso di articolare e realizzare la sua opera di santificazione in mezzo a noi. Fare memoria di coloro che hanno saputo amare il Signore con fedeltà al vangelo, conseguendo il «premio che Dio ci chiama di ricevere lassù» (Fil 3, 14) è per noi motivo di sprone, perché la nostra vita si conformi, come quella dei nostri santi, al desiderio di vedere Gesù. Ci uniamo dunque allo Spirito, bramando la venuta del Signore, nella consapevolezza che il nostro secondo centenario è dentro quel processo di ricapitolazione che segna «la pienezza dei tempi» (Gal 4,4). Infatti, rammenta Tertulliano nel De monogamia – «il Signore ha applicato a sé stesso la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, immagini dell’inizio e della fine che si incontrano in lui. Egli l’ha fatto per mostrare che, come l’Alfa scorre verso l’Omega e l’Omega verso l’Alfa, così in lui è il progresso di ogni cosa dall’inizio alla fine ed il regresso dalla fine all’inizio, affinché ogni disegno divino, trovando il suo compimento in Colui per mezzo del quale trovò il suo inizio (cioè per mezzo della Parola di Dio fattasi carne), avesse un termine identico al suo inizio. E così in Cristo tutte le cose vengono ricondotte agli inizi».

✠Rosario Gisana