Il messaggio del Vescovo per la Pasqua 2017

La Pasqua nella fratellanza dei Popoli

Con la festa di Pasqua si fa memoria della risurrezione di Cristo: un evento che scosse profondamente l’esperienza di fede della prima comunità cristiana. Ad interpretare il senso quest’evento, tra i primi testimoni del cristianesimo, fu l’apostolo Paolo, che osservò, nella nuova condizione in cui era stata posta l’umanità con la risurrezione di Cristo, un modo diverso di vedere le cose. Essa, pur nelle sue variegate inquietudini, avrebbe riscoperto con maggiore consapevolezza un mutamento radicale delle sue dinamiche relazionali.
È il senso dell’espressione kainē ktísis (nuova creazione: 2Cor 5,17), che Paolo utilizza per esprimere la sua percezione: l’umanità, nella sua dimensione creaturale, non soltanto coglie, in modo nuovo, il senso della cooperazione all’opera di Dio, ma diventa altresì ricettacolo delle operazioni attuate dalla risurrezione. L’evento di Cristo risorto infatti non interessò, almeno di primo acchito, ciò che s’intende per fine del mondo, ma l’attualità dell’esistenza nei suoi diversificati intrecci relazionali.

La risurrezione, che riguarda certo in modo compiuto la fine dell’umanità redenta, costituisce tuttavia un’operazione anticipativa della misericordia di Dio sull’esistenza. L’apostolo Paolo intuisce che con il dono di quest’elargizione qualcosa è radicalmente cambiato: «tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati» (1Cor 15,51-52).

Sarebbe in effetti molto semplice circoscrivere le operazioni di questo mutamento nell’atto  della redenzione finale; ma, dal momento in cui Cristo è veramente risorto, l’umanità si trova a sperimentare gli effetti di quest’evento nella quotidianità delle sue relazioni. Ecco perché l’apostolo parla apertamente di mystērion (1Cor 15,51), cioè di un cambiamento dell’umanità che si sta attuando in modo silente in vista del compimento. Ciò lascia capire come la fede nella risurrezione sembra costituire, oggi, una chiave di lettura per contestualizzare sempre meglio le scelte inusitate della storia: i suoi corsi e ricorsi. In altri termini, occorre ammettere che esiste, al di là delle corrispondenze più o meno riuscite dell’umanità, un’azione provvidente di Dio che l’accompagna e la sostiene, oltre al fatto che l’evento della risurrezione ha prodotto su di essa un preciso orientamento: la necessità per i popoli di incontrarsi nel mutuo rispetto delle loro appartenenze.

È come se l’umanità stesse effettivamente tornando alla primigenia condizione, la cui conversione esige il riconoscimento di ciò che ciascuno nasconde atavicamente in se stesso: l’uno è legato all’altro dalla bellezza della fraternità. L’accoglienza vicendevole, che comincia dalle relazioni più intime, come famiglia e città, interessa anche l’incontro e il dialogo tra i popoli nella peculiarità di razza, cultura e religione. Il movimento esodale, che sta coinvolgendo l’Europa, è, in questo senso, particolarmente significativo. Al di là delle condizioni di bisogno, un aspetto preponderante si manifesta nei popoli: la riscoperta di un’appartenenza che non potrà mai più essere ritrattabile. L’uno è fratello all’altro nella diversità e nell’uniformità.

L’apparente contraddizione chiarisce il senso di questo rapporto che, con certissima probabilità, costituisce l’effetto della risurrezione di Cristo. I popoli infatti sono al contempo diversi e uniformi. La loro condizione di diversità scaturisce dalle proprie tradizioni; ma l’uniformità è legata a questa fraternità universale che è tutta da riscoprire. L’incontro sta non soltanto nel convincimento che un popolo ha bisogno di un altro, ma anche nell’oggettività di un’appartenenza, generata dal senso dell’umano. Ciò che rende somiglianti i popoli è propriamente questo senso recondito, implicito, profondo che evoca il riconoscersi l’uno nell’altro, come progressiva riscoperta della somiglianza originaria. È chiaro che ciascuno porta l’immagine di Dio, o meglio direbbe l’apostolo «l’immagine del Creatore» (Col 3,10). Ciò significa che l’appartenenza non si deve alla somiglianza fisica, legata per esempio alla razza, bensì alla condizione primigenia in cui l’umanità fu posta da Dio: la sua appartenenza al Manifattore celeste che ha impresso la propria somiglianza.

È allora la creaturalità che accomuna i popoli, ed è il Creatore con la sua immagine, impressa in ciascuno, che sollecita la riscoperta di questa verità. E giacché Cristo è l’immagine archetipale di Dio, l’atto della risurrezione ha comportato l’avvio di questo processo riconciliativo tra i popoli. Lo ribadisce con forza l’apostolo, che vede nella risurrezione di Cristo l’effetto di un trascendimento razziale, culturale, sociale e persino religioso, che dovrà portare sempre più a quest’unità di fratellanza: «Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Col 3,11).

Questa frase di Paolo, che differisce dal suo parallelo in Gal 3,28, lascia intendere che l’umanità realizza la mutua appartenenza dei popoli in virtù della novità dell’evento di Cristo. Essendo egli, con la risurrezione, il rivelatore unico dell’immagine divina, la sua inabitazione nella storia dell’umanità, mediante l’incarnazione, ha comportato uno sconvolgimento inaudito: ogni popolo è custode dell’immagine del Creatore in virtù del Cristo risorto. Con la risurrezione infatti Dio ha potuto realizzare questa significativa comunicazione «del tutto in tutti». La totalità di Cristo è chiaramente la sua nuova condizione di risorto, comunicata a tutti i popoli. Ed è questa condizione partecipata a sollecitare la riscoperta di ciò che effettivamente accomuna tutti: quella creaturalità che, passando per Cristo risorto, si scopre mutua fratellanza nel rispetto di una diversità che arricchisce e svela la verità su Dio.

+ Rosario Gisana