Omelia di Mons. Gisana – Giovedì Santo 2016

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Questo giorno, dedicato alla memoria del sacerdozio di Cristo, mette in evidenza una nota ecclesiale che motiva il senso del nostro convenire. Ritrovarsi assieme, presbiteri e fedeli laici, per celebrare lui, il nostro Gesù, che ha «ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1,6), significa attuare quello che egli da sempre ha desiderato: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). Il sogno di Gesù sull’unità discepolare non è soltanto una meta da perseguire: essa ha valenza metodologica in quanto sollecita ad una testimonianza di fede che è espressione di comunione fraterna. Sembra che la scelta del vangelo da parte del mondo dipenda unicamente dalla tensione a quest’unità che i discepoli devono ineluttabilmente perseguire. Senza troppo forzare il senso di questa consegna di Gesù al Padre, è lapalissiano che, nella misura in cui ciascuno si adopera per attività che vedono presbiteri e fedeli laici in comunione tra di loro, dentro una circolarità di tipo sinodale in cui cresce la consapevolezza del camminare assieme, la credibilità dell’essenza ha la meglio sulla visibilità della forma.

Sappiamo che non è così semplice trasmettere la fede al mondo, perché l’ostilità di quest’ultimo, secondo il pensiero giovanneo di ko,smoj (mondo), necessita di testimonianze di autentica fraternità che nascono da una certa visione discepolare, rivisitata dalla propria ubbidienza al vangelo: quello che conta è dar prova di camminare assieme. Sarebbe davvero stupefacente, in un percorso di cambiamento di mentalità, che i presbiteri sperimentassero tra di loro la festosità del lavorare assieme, in un contesto per esempio inter-parrocchiale. Lo rammenta con forza l’Esortazione apostolica Christifideles laici al n. 26 (30 dicembre 1988): «Per il rinnovamento delle parrocchie e per meglio assicurare la loro efficacia operativa si devono favorire forme anche istituzionali di cooperazione tra le diverse parrocchie di un medesimo territorio». È pertanto maturo il tempo della con-divisione, supportata da gesti di apertura solidale, mediante i quali vedremmo debellare quel subdolo comportamento individualista in cui da tempo siamo precipitati. Esso in effetti è il nostro dia,boloj (colui che divide), che tende a metterci l’uno contro l’altro, trascinandoci in quello stato d’illusione per il quale l’attività pastorale di ognuno sarebbe unica e irrepetibile. Ciò, come è logico, dà adito ad un certo narcisismo ministeriale che obnubila il senso del mandato sacerdotale: di essere stati costituiti pastori che, ad imitazione di Cristo, servono il popolo a loro affidato (cf. Gv 10,14-16; 1Pt 5,1-4).

La testimonianza della comunione fraterna è dunque richiamo di fede. Non è così facile permettere all’altro di poter interagire nelle proprie attività pastorali. Pur comprendendo il valore di tale partecipazione, siamo oggi incapaci di porre gesti che possano attuare il sogno di Gesù. Si tratta di un modo di vivere di cui – occorre dirlo – non abbiamo diretta responsabilità, oltre al fatto che non è sempre utile risaltare le cause da cui nasce tale chiusura. Quello che conta però è capire che ciascuno si trova di fronte ad un bivio: scegliere di agire in fraternità con il rischio di rallentare l’efficienza delle attività oppure continuare ad esercitare il ministero nella consapevolezza che la chiusura occluda irreversibilmente l’adesione al vangelo da parte del mondo. L’efficacia della testimonianza non dipende certo dal numero delle attività né tanto meno dall’originalità dell’ideazione. L’apertura fraterna, che diventa ascolto sincero, rinuncia alla propria idea, rispetto della crescita altrui, superamento dei pregiudizi, fiducia vicendevole, schiettezza nel confronto, gioiosa accoglienza, perdono deciso, affidamento l’uno dell’altro a Dio, consente di sperimentare la potenza del vangelo (cf. Rm 1,16): il modo cioè con cui il Signore osa convertire additando il valore della fraternità presbiterale.

L’avvio sarebbe semplice, se superassimo, per esempio, il divario che esiste tra presbiteri anziani e presbiteri giovani. È opportuno che si faccia appello all’amore che ci accomuna per scelta. Non dobbiamo dimenticare che nel presbiterato siamo custodi dell’unico amore che rivolgiamo a Gesù. Questa nota affettiva consente di favorire quell’unità che rende effettiva la fraternità presbiterale. La vita di comunione scaturisce infatti da aperture accoglienti, le quali, prendendo le mosse dall’amore che ognuno ha nei confronti del Signore, mostrano una gestualità fraterna che promuove comprensione, discrezione, accompagnamento. Questi aspetti riguardano in particolare i presbiteri anziani, i quali, prendendosi cura dei presbiteri giovani, mostrerebbero con la loro attenzione quella paternità che si fonda comunque sulla fratellanza. È infatti compito degli anziani introdurre i giovani alla comunione presbiterale, all’unicum presbyterium, sollecitando in loro quelle virtù che si ravvisano nel modo con cui gli anziani vivono il proprio sacerdozio. La crescita degli uni dipende dalla testimonianza degli altri.

Il disorientamento spirituale che talvolta investe i giovani, trascinandoli a vivere in modo poco coerente il proprio ministero, dipende dai nostri esempi di presbiteri anziani. È necessario che ciascuno abbia il coraggio di rivedere la propria adesione al vangelo, tenendo conto di quello che raccomanda l’autore di 1Pt 4,7-8.10: «Siate dunque moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera. Soprattutto conservate tra voi una grande carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati […]. Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta (ca,risma), mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio (ca,ritoj qeou/)». La sobrietà di vita, che costituisce il basamento per un’autentica fratellanza, altro non è che generosa corrispondenza all’opera della ca,rij (grazia) divina, cioè a quell’azione di benevolenza che Dio ha manifestato nel Christus patiens (cf. 1Pt 2,21-25) e continua a manifestare in quanti accolgono la parola della croce (cf. 1Cor 1,18). Il fatto che ciascuno di noi, nell’esercizio del proprio ministero, si adoperi soffrendo nell’operare il bene piuttosto che fare il male (cf. 1Pt 3,17), aiuta ad edificare quella fraternità che nutre di testimonianza evangelica i nostri presbiteri giovani. Ciò significa più concretamente che nell’accogliere questi ultimi, è nostro compito sostenerli, senza invidia, nella ricezione della ca,rij profusa da Dio nella loro vita, affinché risalti in loro l’azione carismatica (ca,risma), per la crescita di fede delle nostre comunità.

Quest’impegno di comunione fraterna interessa pure i presbiteri giovani. Occorre che essi si dispongano ad ascoltare con più docilità i presbiteri anziani, cogliendo in loro quella sapienza che nasce dalla lunga esperienza del ministero. Non bisogna dimenticare che la conoscenza cresce nel raffronto umile e schietto con coloro che hanno già superato le difficoltà della vita. Ciò serve non soltanto ad evitare errori grossolani, ma anche ad accelerare i tempi di maturazione: riconoscere la sapienza dell’altro significa porre concretamente le condizioni per migliorare il proprio modus vivendi. Ascoltare l’anziano è fonte di sapienza: un’occasione propizia per far nascere nei presbiteri giovani il timore del Signore. Esso consentirà loro di riscoprire il presbiterato come servizio. Si ravvisa infatti un grande rischio: nei presbiteri giovani, pur impegnati nel ministero, potrebbe venir meno quello zelo pastorale che dà senso alla chiamata sacerdotale. La reciproca condiscendenza, che vede i presbiteri anziani più vicini ai presbiteri giovani e questi ultimi più ricettivi all’ascolto, portererebbe ad alimentare nei giovani quella carità pastorale «che costituisce l’anima del ministero presbiterale» (Pastores dabo vobis n. 48). Essa – spiega ancora la Pastores dabo vobis al n. 70 – «spinge il sacerdote a conoscere sempre più le attese, i bisogni, i problemi, le sensibilità dei destinatari del suo ministero: destinatari colti nelle loro concrete situazioni personali, familiari, sociali». È chiaro che questo zelo ha ripercussioni pratiche sulla vita di comunione. Si coglierebbe infatti, nella vita pastorale, un cambiamento di rotta straordinario: il servizio alla gente diventa cura delle persone, giacché si concepisce l’impegno come accoglienza dei loro vissuti; la partecipazione agli incontri presbiterali diventa desiderio nel ritrovarsi assieme per la comune amicizia che ci lega a Cristo; l’attenzione ai presbiteri più anziani o malati si forma, grazie ad un atteggiamento solidale che si sviluppa con la quantificazione di gesti d’amore. È vero: la vita di comunione è un dono da accogliere quotidianamente, la cui ricezione necessita di una gestualità costante, molteplice e affettiva.

Quest’esercizio di comunione riguarda anche il rapporto dei presbiteri con i fedeli laici, in virtù dell’unico sacerdozio di Cristo. Lo esplicita la Costituzione dogmatica Lumen gentium al n. 10: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo». Questo mutuo riconoscimento, dato appunto dal sacerdozio di Cristo, spiega il motivo perché i presbiteri debbano agire in comunione con i fedeli laici. Essi hanno l’unzione dello Spirito Santo «per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo» – recita ancora Lumen gentium al n. 10 – lasciando intravedere un aspetto singolare della loro testimonianza. Lo chiarisce Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium al n 119: «In tutti i battezzati, dal primo all’ultimo, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad evangelizzare. Il Popolo di Dio è santo in ragione di quest’unzione che lo rende infallibile “in credendo”. Questo significa che quando crede non si sbaglia, anche se non trova parole per esprimere la sua fede». Tale condizione, che si ravvisa in virtù del sacerdozio di Cristo, non può essere elusa nell’edificazione della comunione ecclesiale.

Presbiteri e fedeli laici sono chiamati a lavorare assieme, nel rispetto del grado che li differenzia e nell’ascolto di ciò che, attraverso questi ultimi, il Signore suggerisce alla Chiesa. I fedeli laici sono infatti dotati – sottolinea ancora Papa Francesco «di un istinto della fede – il sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio». Perché allora si realizzi la comunione nella Chiesa, occorre che sia data ai fedeli laici la possibilità di espletare liberamente il loro mandato: una presenza attiva che certifica la formazione di una Chiesa in ascolto del suo Sposo e pronta ad essere missionaria «perché il mondo creda» (Gv 17,21). La realizzazione di una Chiesa in uscita, come ambisce Papa Francesco, non sarebbe possibile, senza l’ausilio della loro testimonianza. I fedeli laici costituiscono, nell’armonia del corpo mistico di Cristo (cf. Ef 4,16), una presenza santificante che sostiene il cammino di conversione, cui il mondo è chiamato, e consente alla Chiesa di poter incarnare la sua relazione con il Signore. Non c’è dubbio che essi, nella misura in cui è dato loro di esprimere liberamente il proprio sensus fidei, renderanno possibile quanto sintomaticamente reclama ancora Papa Francesco in Evangelii gaudium n. 49, sull’identità della Chiesa: «Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita».

Questa missionarietà della Chiesa ha chiaramente una sua scaturigine: la comunione tra presbiteri e fedeli laici. Si può persino aggiungere che, nella misura in cui gli uni e gli altri sanno vicendevolmente riconoscersi nell’ordo ministerii cui sono soggettivamente chiamati, la Chiesa rivela la ragione del suo esistere di fronte al mondo. Ciò richiede accoglienza e rispetto; ma soprattutto occorre che i presbiteri abbiano vivida conoscenza del ruolo sacramentale che i fedeli laici occupano nella pastorale ordinaria. Quando si parla di comunione non s’intende soltanto che le relazioni tra presbiteri e fedeli laici debbano essere amorevoli e solleciti, considerando che, almeno da parte di noi presbiteri, quest’aspetto debba essere assodato da tempo, ma che i fedeli laici abbiano realmente la possibilità di poter esprimere la loro condizione di battezzati. Si tratta di una dimensione fondamentale della Chiesa: essenziale, senza la quale potrebbe essere compromessa la sua identità di corpo mistico, almeno come rammenta l’apostolo in Ef 4,16: «Tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità». È chiaro che qui per avga,ph Paolo intende koinwni,a, cioè quella comunione fraterna che scaturisce dalla mutua accoglienza di quello che ciascuno è davanti a Dio inerente soprattutto quelle operazioni di grazia con cui egli attua la sua azione sacramentale.

Di quest’azione la Chiesa non può fare a meno. I presbiteri, in virtù del loro ministero, hanno questo compito precipuo non soltanto di far risaltare nel discernimento quest’azione di grazia, ma anche di consentire che essa agisca nella testimonianza dei fedeli laici in modo attivo ed efficace. La revisione dello Statuto del Consiglio pastorale diocesano, che presto sarà consegnato a tutta la comunità ecclesiale, scaturisce da questa logica constatazione sovente disattesa. La presenza dei fedeli laici nell’ordinamento delle attività pastorali non è per nulla marginale; essa, al contrario, costituisce una forza attiva assieme ai presbiteri e diaconi, tenendo sempre conto della diversificazione dell’ordo ministerii. È così che realizzeremo il sogno di Gesù, in virtù di quello che egli stesso ha voluto che fossimo nell’unico suo sacerdozio: un popolo sacerdotale che eleva al Signore le lodi per una Chiesa che svela il suo vero volto al mondo. Quello certo di madre che dispensa misericordia, perdono, riconciliazione, ma ancor più quello di sposa che si adopera per il ritorno del mondo a Dio attraverso la comunione dei figli, contemplativi della vita trinitaria vivamente presente nella sua testimonianza per lo Sposo Gesù.

✠ Rosario Gisana