È straordinario il modo come Gesù parli di Dio. Ascoltarlo nella sequenza dei vangeli si rimane fortemente colpiti; credendo poi in lui si prova un grande desiderio: conoscere colui che lo ha mandato, cogliendo nella sua persona di Verbo incarnato, sia il senso della relazione con questo Dio benevolo verso un’umanità bisognosa di incontrarlo, sia il valore rivelativo dell’atto kerygmatico che fu la donazione del Figlio. Cosa poi s’intenda per “kerygmatico”, bisogna tenere conto della parola greca kērygma, che indica l’araldo nell’atteggiamento di proclamare un fatto eccezionale. Ebbene: Gesù è l’araldo, benché egli sia molto di più, l’inviato di Dio per comunicare un evento che l’umanità aveva purtroppo dimenticato. A esplicitare tale missione è l’autore del quarto vangelo che scrive: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). L’espressione «lui lo ha rivelato» traduce l’originale greco: «ekeinos exēgēsato» che vuol dire: lui, cioè Gesù il Figlio di Dio, ha accettato di essere mandato per raccontare chi è veramente Dio, Creatore e Signore della storia.
Egli lo ha fatto in un modo singolare, appunto da Figlio, assumendo la nostra natura umana (cfr. Fil 2,6-8), perché nessuno dimentichi mai più il senso di tale rivelazione; e ciò è accaduto attraverso le sue parole che enunciano la peculiarità della natura divina e, in modo più eloquente, con il dono della sua vita «in riscatto per molti» (Mc 10,45). Quest’aspetto evoca quello che oggi significa per noi “pasqua”: un passaggio certo di conversione in prospettiva sempre più evangelica, ma anche di comprensione, o per meglio dire di constatazione su quello che è Dio: un padre amorevole verso tutti, al di là di chi siamo e come si possa a lui corrispondere. La conoscenza della paternità di Dio è infatti l’evento pasquale che Gesù ha inaugurato con la sua morte e risurrezione. Anche se l’incarnazione del Verbo divino ha sollecitato il nostro stupore sulla promessa della figliolanza divina (cfr. Rm 8,14-17), estesa a tutti, al di là della razza, cultura o religione, la condizione del Christus patiens è l’atto rivelativo per antonomasia da cui intuiamo e comprendiamo la grandezza dell’amore di Dio. E questo non solo perché egli ha donato l’unigenito suo Figlio, lasciandolo morire sulla croce, ma anche perché dall’esistenza terrena, voluta da lui per Gesù, si comunicasse chi è veramente Dio.
La missione di Gesù è protesa a rendere questa testimonianza nella sfumatura dolcissima di una paternità che è benevola, sollecita e risolutamente prodigale. Non è facile concepire, da un punto di vista umano, l’immagine di un Dio “buono”. Vorremo che egli fosse rigoroso, severo, intransigente, e forse lo sarà pure, ma non certo come lo pensiamo o lo desideriamo. Il nostro senso di giustizia esula dai principi relazionali proposti da Gesù nelle sue parabole, nonché dal modo come egli lo invochi e richiami la sua presenza. Non si era mai sentito dire che Dio potesse essere padre nel senso di chi ha nei confronti dei figli un atteggiamento indulgente, o per meglio dire con i padri della Chiesa “condiscendente”. È quello che traspare dal modo con cui Gesù si rapporta con lui, verso il quale ha un atteggiamento ubbidiente, docile, mite, per aver compreso quanto egli possa essere buono. È il grande insegnamento del “racconto esistenziale” che Gesù fa della sua relazione con Dio. D’altronde non lo avrebbe potuto invocare Abbà, se non avesse avuto la certezza della sua longanime bontà.
L’esistenza di Gesù lo dimostra chiaramente, e la sua passione di morte e risurrezione è l’acme di questa bontà incommensurabile, alla quale bisogna abituarsi, cercando di mutare con prontezza la nostra relazione con gli altri. Se vogliamo cioè intendere il mistero di Dio, il mistero pasquale inaugurato da Gesù, occorre che ci si decida a essere più buoni e pazienti, giacché la benevolenza fraterna è l’unica possibilità che ci rimane per sintonizzarci con la singolarità di tale rivelazione. Si può conoscere Dio e invocarlo nel modo con cui Gesù ci ha insegnato, se proviamo a sedare, con una certa fermezza, le nostre innumerevoli forme di intolleranza nei confronti non solo di sé stessi, quando non sappiamo accettare limiti e fragilità, ma anche nei confronti degli altri, giudicandoli per quello che vediamo e non per quello che essi sono davanti a Dio nella sua bontà. Dimentichiamo purtroppo l’esortazione di Gesù, il quale, dopo aver egli introdotto i discepoli a un amore grande, incommensurabile perché cosi è: amare i propri nemici, motiva l’ardita testimonianza discepolare, rammentando, quasi a mo’ di passaggio, la natura misericordiosa di Dio che «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45). La benevolenza divina, forse inconcepibile a molti, non è certo inaudita per coloro che s’impegnano, seppur con fatica, a seguire Gesù in questa rivelazione pasquale.
Su tale benevolenza dobbiamo e vogliamo innestare la nostra testimonianza di cristiani che si preparano a vivere la pasqua di Gesù, accettando con umiltà di adempiere alla perfezione evangelica (cfr. Mt 5,48), al di là dell’età o della condizione che viviamo, sottoponendo a purificazione quello che siamo, affinché l’egoismo venga prontamente soverchiato dalle buone intenzioni e dai comportamenti veri, sempre a imitazione della bontà di Dio. Non dobbiamo, a tal proposito, dimenticare quello che ci suggerisce l’autore della seconda lettera di Pietro, dopo aver ricevuto l’annuncio della morte e risurrezione di Gesù: «Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza (makrothymei) verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,8-9). Il punto di riferimento rimane sempre Dio nella sua paternità, come appunto lo abbiamo conosciuto da Gesù, imparando a relativizzare ciò che accade nella nostra vita, giudicandola alla luce della bontà divina. L’impegno è di non desistere mai da questa lettura evangelica della vita, perché solo l’amorevolezza di Dio aiuta a trascendere la nostra angusta visione del tempo. Chi è buono si inabissa nell’incommensurabile amore di Dio, la cui angolatura consente visioni larghe e armoniose, rivelando stupende sfumature di longanimità.
Questa virtù indica chiaramente il cuore grande di Dio, come si coglie dal verbo greco makrothymein del v. 9 della 2Pt. La longanimità indica l’atteggiamento benevolo e paziente di Dio, sensibile sempre ai bisogni altrui, connotandosi persino di amorevolezza viscerale alla maniera di un genitore nei confronti del proprio figlio: una relazione singolarissima che non può essere annoverata tra gli abituali comportamenti umani. In Dio infatti la bontà è perfezione assoluta di cui sono riflesso le nostre piccole attenzioni verso gli altri, quando soprattutto proviamo a vincere la prepotenza del nostro egoismo. La pasqua, nel rivelare la bontà del Padre misericordioso, ci invita a essere più buoni, spronandoci a imitare la prodigalità di Gesù, il quale ha donato sé stesso a noi che non meritiamo. Non possiamo restare indifferenti alla rivelazione della bontà del Padre. Se la sua benevolenza è inimitabile, ci accompagna e sostiene l’esortazione di Gesù a perseguire una perfezione che è costituita da gesti di misericordia (cfr. Mt 5,48): uno stile di vita evangelico alla portata di tutti, a condizione che ci si lasci stupire dal modo come Dio continua a essere amorevole verso di noi, nonostante la nostra grettezza nell’accogliere gli altri. La pasqua è dunque una scelta di vita, stando dalla parte di chi impara ogni giorno a essere misericordioso come lo è Dio, descritto stupendamente da Gesù nella parabola di quel padre che additò ai suoi figli la bellezza di ritrovarsi fratelli (cfr. Lc 15,11-32), grazie a un modo di essere buoni che prescinde da qualsiasi tornaconto umano.
✠ Rosario Gisana
Vescovo